“L’ estate è alle porte e sarebbe bene aprirle con una degna prova costume” dice Marta alle sue amiche, bevendo uno spritz. Nel frattempo, alle loro spalle, bella e sicura di sé, si avvicina al bancone del bar una ragazza dal fisico mozzafiato.
“Qualcuna è pronta a spalancarle”, dice Gaia, indicando con lo sguardo, la nuova arrivata alle sue amiche.
“Eh, brutta bestia l’invidia!” le risponde prontamente Sofia.
Ma cos’è esattamente sta invidia?
Questo sentimento atavico, di cui ci vergogniamo e che non è presente nelle emozioni di base?
C’è addirittura nella Bibbia, nella cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden e nel motivo per cui Caino uccide suo fratello Abele.
L’invidia è un’emozione complessa, socialmente inammissibile, tra le più mal viste, anche più dell’odio e della vendetta. E’ un’emozione che chiama in causa diversi scopi e credenze e presuppone l’esistenza di tre termini: un soggetto invidiante (le amiche al bar), un soggetto invidiato (la tizia sconosciuta che entra) e un oggetto dell’invidia (un fisico mozzafiato).
Nello specifico, nella mente dell’invidioso si struttura una serie di credenze e scopi; in primis, che il soggetto invidiato abbia qualcosa che lui, al contrario, non possiede e che desidera avere.
Questa è la prima frustrazione. Se ci si ferma qui si parla di invidia bianca o buona, facilmente confessabile e caratterizzata dal semplice volere un qualcosa che non si ha. E’ quasi complimentosa e non c’è nessun risentimento. Se le ragazze al bar si fermassero semplicemente a questo punto e pensassero che in qualche modo anche loro possono avere o riuscire ad ottenere un fisico degno della prova costume, la loro sarebbe ammirazione o, al massimo, emulazione, anche competitiva, ma di certo non dannosa.
La vera invidia, invece, prevede delle valutazioni comparative da cui l’invidioso ne esce perdente e sconfitto, con la consapevolezza o la convinzione che non può arrivare ad avere l’oggetto di invidia e, ne consegue, un senso di inferiorità e di non essere all’altezza. L’invidia parte proprio da una ferita all’autostima ed è definita l’emozione dell’inferiorità. Se quella delle ragazze fosse reale invidia, loro penserebbero di avere qualcosa in meno e che né una buona dieta, né un costante esercizio fisico possano portarle ad avere il fisico della ragazza mozzafiato. Il processo alla base dell’invidia è il confronto sociale (D’Urso e Trentin, 1999). Infatti, altri scopi importanti coinvolti e frustrati nell’invidia sono quelli dell’immagine sociale e dell’auto-immagine. L’immagine che riflette “lo specchio-altro” indebolisce l’immagine di sé, come accade alla matrigna invidiosa di Biancaneve, nella favola dei fratelli Grimm (2004).
Ciò che rende l’invidia non ammissibile agli occhi degli altri è il fatto che la persona invidiata non è responsabile della mancanza dell’invidiato e a lui effettivamente non toglie niente e anche il fatto che la persona invidiata può essere addirittura indifferente al fatto di possedere l’oggetto d’invidia.
L’invidia, inoltre, è anche disposta a calpestare il merito riconosciuto, altra ragione di inammissibilità sociale di questa emozione. Nella mente dell’invidioso, infatti, non c’è la credenza “non se lo merita”, “non è giusto”. Se ci fosse si cambierebbe universo emozionale, si parlerebbe di ingiustizia e indignazione, sentimenti nobili ed esprimibili, ampiamente manifestabili e accettati dalla società.
Se la ragazza bellissima meritasse quel fisico, per i sacrifici che fa per mantenerlo, l’invidia nei suoi confronti si rafforzerebbe e non sarebbe giusto palesarla agli altri.
L’inesprimibilità dell’invidia costituisce un’aggiuntiva sofferenza: il disprezzo e la condanna sociale dell’invidia è interiorizzata, al punto che la stessa persona invidiosa, infatti, considera l’invidia come un’emozione ignobile e si disprezza per il fatto di provarla.
Tutto questo stato mentale e l’insieme delle sofferenze sentite danno luogo a un’attivazione di scopi del male dell’altro, chiamata malanimo (Castelfranchi, Miceli e Parisi, 1988). Il malanimo o la malignità, considerata un elemento importante di questa complessa emozione (Contarello, Laniado, 1992; Matarazzo, Nigro, 1992; Smith, Kim, 2007; van de Ven et al., 2009), non è da confondersi con lo scopo aggressivo di fare il male all’altro, implicato nell’odio, nell’aggressività e nella violenza. Si tratta del desiderio che qualche scopo dell’altro sia frustrato e vada in malora, senza agire concretamente. Infatti, spia dell’invidia è una certo stato di sollievo e malcelata soddisfazione quando si sa qualcosa di negativo dell’altro: ad esempio, una sorta di sensazione di gioia e liberazione se, rincontrando quella ragazza, ci accorgessimo che è ingrassata o la trovassimo un po’ trasandata.
E se le ragazze al bar provassero seriamente invidia dovrebbero riscoprirsi anche ad augurarle intimamente che questo succeda e a gufarle dietro, quasi come accade con la pratica del malocchio che, non casualmente, è il simbolo dell’invidioso.
Desiderare il “male” dell’altro ha l’arcaica funzionalità di riequilibrare una differenza di potere e ridurre il senso d’inferiorità provata, danneggiando ciò che ci danneggia. Pare, infatti, che l’invidia sia una sorta di molla sociale che produce competitività (De Nardis, 2000). Quello che accade, però, è che non vengono raggiunti effettivamente questi scopi, ma che ci sia una ridotta efficacia sia in chi invidia che in chi è invidiato: il rimuginio legato all’invidia, che fa sentire la persona inefficace, ostacola il funzionamento adattivo di chi invidia (Scarinci, 2010); augurare il male all’altro non permette di ottenere il bene invidiato e desiderato (van Dijk et al., 2006); l’invidioso, comunque, non raggiunge gli scopi di sentirsi migliore o stimato, ma, invidiando, agisce in modo da ridurre le potenzialità proprie, dell’invidiato e del gruppo (van de Ven et., 2009).
In definitiva, un po’ come afferma Helmut Schoeck, “l’uomo invidioso pensa che se il suo vicino si rompe una gamba, egli sarà in grado di camminare meglio”.
BIBLIOGRAFIA:
Castelfranchi, C, Miceli, M., Parisi, D. (1988), Invidia. In C. Castelfranchi (a cura di), Che figura.Emozione e immagine sociale, Il Mulino, Bologna.
Contarello, L., Laniado, A. (1992), Immagini e vissuti di un’emozione sociale: l’invidia. In G. Bellelli (a cura di), Sapere e sentire. L’emozionalità nella vita quotidiana, Liguori, Napoli.
D’Urso, V., Trentin R. (a cura di) (1999), Introduzione alla psicologia delle emozioni, Laterza, Roma.
De Nardis, P. (2000), L’invidia, Melteni, Roma.
Grimm, J., Grimm, W. (1812), Biancaneve, tr. it. in Fiabe, Mondadori, Milano, 2004.
Matarazzo, O., Nigro G. (1992), La dimensione semantica di invidia e gelosia, Comunicazione presentata all’incontro annuale sulle emozioni, Padova.
Scarinci, A. (2010), L’invidia, in M. Apparigliato e S. Lissandron (a cura di), La cura delle emozioni in terapia cognitiva, Alpes, Roma.
Smith, R., Kim, S.H. (2007), Comprehending envy, Psychological Bulletin, 133 (1), 46-64.
van de Ven, N. et al. (2009), Leveling up and down: the experiences of benign and malicious envy, Emotion, 9 (3), 419-429.
van Dijk, W.W. et al. (2006), When people fallfrom grace: reconsidering the role of envy in schadenfreude, Emotion, 6 (1), 156-160.