“Lavora sulla tua stessa salvezza. Non dipendere dagli altri.”
– BUDDHA –
“Senza il suo aiuto non avrei mai fatto niente nella mia vita. Senza di lui, forse, non sarei nemmeno quella che sono. Lui è la mia forza, io ho bisogno di lui per essere felice e vivere bene. Non posso stare senza di lui, non riuscirei ad affrontare i problemi che la vita può riservarmi, le difficoltà. Senza di lui non sarei niente, sarei indifesa”
Il dott. Albert Ellis nel 1962 propone un tipo di terapia denominata Terapia Razionale Emotiva (RET) che si basa fondamentalmente su due principi: ciò che un individuo dice a se stesso ha un valore determinante nella sua condotta e nella sua sofferenza; il paziente va rieducato a sviluppare credenze adeguate al raggiungimento di scopi per lui importanti. Secondo la RET pensieri ed emozioni si articolano a partire da convinzioni profonde della persona (su se stesso, sugli altri e sul mondo in generale) che, a loro volta, determineranno il modo in cui questa persona interpreterà il mondo che lo circonda, la sua realtà, il suo ambiente. Quando queste convinzioni risultano illogiche, poco empiriche e di ostacolo al raggiungimento degli obiettivi, Ellis le definisce “irrazionali”, al contrario, quando le interpretazioni soggettive permettono alla persona di raggiungere le mete prefissate in modo efficace, ed il ragionamento soggiacente la sequenza logica e scientifica tra le premesse e le conclusioni è corretto, la filosofia basilare di quella persona è funzionale e le sue convinzioni sono da considerarsi “razionali” (Ellis, 1982). La Terapia Razionale Emotiva si rifà a due principali correnti filosofiche antiche: Buddha e Confucio, che affermano “Cambia il tuo atteggiamento e potrai cambiare te stesso”; Epiteto e Marco Aurelio che evidenziarono l’importanza della filosofia individuale nel disturbo emozionale. Lo scopo di questa terapia è infatti di aiutare il paziente ad identificazione i suoi pensieri irrazionali che determinano i suoi disturbi emotivi e comportamentali, ed aiutarlo a sostituire tali pensieri con altri più “razionali” o reali, e meno autodistruttivi, che gli permettano di raggiungere con più efficacia i sui obiettivi. Ellis sostiene che, in generale, possono essere identificate quattro forme di pensiero irrazionale logico e autodistruttivo, che prevalgono nella maggior parte delle emozioni alterate:
– doverizzazioni verbalizzate con “Devo”, “Dovrei”, ecc… che in realtà non sono sostenute da nessuna legge o regola naturale, bensì da mere credenze e desideri, dogmi, principi personali;
– ideazione catastrofica che porta a considerare orribile, terribile, catastrofica, orrenda una situazione in cui le cose non sono come si crede che “dovrebbero” essere;
– la credenza di un’incapacità personale di gestire una situazione che secondo le persone è orribile perché non dovrebbe essere così, ed espressa da ripetuti “non lo sopporto, non lo tollero”;
– accuse, dirette sia ad altre persone che al mondo, alla sorte, al destino, alle cose o a se stessi, che si riconoscono grazie ad espressioni come “stupido, cretino, incapace, incompetente, nullità…”.
Secondo l’autore le tre affermazioni assolutiste generatrici di nevrosi sono le seguenti:
-“Devo, assolutamente, avere successo nella maggior parte delle mie azioni e relazioni: altrimenti come persona sono del tutto inadeguato e inutile!”. Risultato: sensazioni di grave ansietà, depressione, disperazione, inutilità. Atti de fuga, rinuncia, abbandono, dipendenza.
-“Il resto della gente deve, assolutamente, trattarmi con considerazione, giustizia, rispetto e amabilità; altrimenti, non sono così buoni come dicono e non meritano di raggiungere la felicità durante la vita”. Risultato: sentimenti di ira, rabbia, risentimento. Atti di lotta, inimicizia, violenza, guerre, genocidi.
-“Le condizioni in cui vivo devono essere assolutamente confortevoli, piacevoli e di pregio: altrimenti sarà orribile, non lo sopporterò e tutto questo maledetto mondo sarà uno schifo!” Risultato: sentimenti di autocommiserazione, ira e bassa tolleranza alla frustrazione. Atti di abbandono, lamentela continua e dipendenze (Ellis, 1999).
L’autore, a partire da queste premesse identifica 11 idee irrazionali che stanno alla base della sofferenza psicologica ed emotiva. L’ottava idea irrazionale riconosciuta da Ellis è la seguente:” Dobbiamo dipendere dagli altri e abbiamo bisogno di qualcuno più forte di noi su cui contare”.
PERCHE’ QUESTA IDEA E’ DA CONSIDERARSI IRRAZIONALE?
Ellis motiva l’irrazionalità di tale convinzione con le seguenti argomentazioni. In prima battuta, nonostante la complessità della società odierna aumenti le probabilità di avere bisogno di altre persone per svolgere attività ed abitudini anche quotidiane e basilari, non abbiamo nessun motivo di trasformare questa collaborazione, anche se utile e necessaria, in una dipendenza. Non abbiamo nemmeno motivo di massimizzare, esasperare, ingigantire questa dipendenza e pretendere che gli altri scelgano, pensino e a volte agiscano per noi, al nostro posto. In altre parole, è vero che la realtà ci mette continuamente a confronto con persone che possono fare qualcosa per noi, se riflettiamo non riusciremmo nemmeno a comprare dell’acqua o del cibo per soddisfare un bisogno primario e vitale, senza la presenza di persone che si occupano di questo. Ma l’aspetto fondamentale sta nell’intendere questo contatto, questo approccio, questo “scambio” come una collaborazione, una cooperazione e non come una dipendenza. Secondariamente, per definizione, dipendenza e autonomia ed individualismo, non possono coesistere senza prendere “spazio” l’una alle altre. Non posso essere dipendente ed autonomo in egual misura in uno stesso momento, non posso dipendere dalle scelte degli altri e contemporaneamente usare la mia testa per prendere delle decisioni. Semplicemente, se dipendo dagli altri rinuncio, in modo direttamente proporzionale, alla mia autenticità e al mio individualismo. Questo perché maggiore è il bisogno soggettivo di ricevere aiuto dagli altri, maggiori saranno le rinunce personali che sarò disposto a fare pur di compiacere e soddisfare colui che, a mio parere, deve necessariamente aiutarmi. E questo, inequivocabilmente, mi porta a non essere me stesso ma bensì quello che gli altri desiderano che io sia. Contestualmente, la dipendenza innesca un circolo vizioso che le permette di autoalimentarsi e autoperpetuarsi. Cosa significa? Questo significa che più contiamo sugli altri per farci guidare ed aiutare, meno tendiamo ad agire da soli e di conseguenza ad imparare; più dipendiamo dagli altri per sentirci sicuri, più perdiamo la nostra sicurezza di base. La dipendenza alimenta e genera dipendenza perché non permette alla persona di fare esperienze adeguate a sviluppare capacità personali ed un senso di fiducia in se stessi ed autoefficacia che gli permettano di non essere dipendente da qualcuno. Proiettare la propria “sicurezza” in qualcun altro, da una parte permette di tutelarsi dal commettere errori o dall’essere incolpati per questo, d’altro canto rende un individuo dipendente da questa persona, sfiducioso nei confronti di se stesso e delle proprie capacità, elicitando ansia destinata ad aumentare man mano che la dipendenza si consolida. Così facendo la persona crederà sempre, e sempre di più, di sentirsi sicuro in funzione della presenza o dell’azione di qualcun altro e non che l’unica sicurezza reale che possiamo avere nella vita è quella di sapere, indipendentemente dal numero di errori che commettiamo, che non siamo ancora persone indegne, ma solamente esseri umani soggetti a sbagliare. Infine, dipendere dagli altri è irrazionale perché ci mette in condizione di essere in balia di forze esterne ( proprio le altre persone) che non possiamo controllare in alcun modo, siamo totalmente alla loro mercè. Questo accade perché non sarà possibile prevedere il momento in cui, per mille svariati motivi, queste persone cesseranno di essere affidabili annullando così l’unica fonte di sicurezza per noi esistente. E questo potrebbe succedere non necessariamente perché qualcuno ci vuole ferire, o vuole vendicarsi, o ha capito come poterci fare del male. Semplicemente può succedere perché la persona che rappresentava la nostra sicurezza, il nostro riferimento, per motivi di lavoro deve trasferirsi in un altro Paese, o ancora, per disgrazia, cessa di esistere. Per questi motivi, dipendere da se stessi per prendere decisioni o compiere azioni, ci tutela da limitazioni spaziali, temporali, esistenziali, al nostro senso di sicurezza. L’individuo razionale dovrebbe quindi fare il possibile per sviluppare una propria autonomia, individualità, reggersi sulle proprie gambe, pensare ed agire di testa sua. Una persona dovrebbe essere in grado di accettare che è e sarà sempre solo al mondo, e che questo dato di fatto non è poi così terribile, non è poi così terribile essere autonomo e responsabile delle proprie azioni. Le collaborazioni e cooperazione con le altre persone sono reali ed utili, ma gli altri, nel momento delle difficoltà e della sofferenza, non potranno riconoscere i suoi desideri e bisogni e di conseguenza non saranno in grado di agire in modo funzionale ad affrontare i problemi vissuti da una persona. In altre parole, se non sono io a riconoscere e perseguire i miei desideri e bisogni, è irrazionale pensare che altre persone possano farlo per me, sostituendosi a me. Allo stesso modo, l’accettazione di correre il rischio di sbagliare compiendo azioni deliberatamente scelte per perseguire dei propri obiettivi, dovrebbe associarsi alla credenza che non è mai terrificante o orrendo non coronare certe aspirazioni, che gli esseri umani imparano essenzialmente sbagliando, e che i suoi insuccessi non hanno nulla a che vedere con il suo valore personale. Nel prendermi la responsabilità delle mie azioni dovrei anche riconoscere che: non sempre è possibile raggiungere i propri obiettivi, nonostante l’impegno e lo sforzo per perseguirli, possono esistere variabili esterne che rendono la cosa non possibile; nel perseguire le mie mete potrei sbagliare, fallire, ma questo è un mio diritto, fa parte della mia natura e può permettermi di imparare, di fare esperienze che possono essermi utili in situazioni future; che questo non fa di me una brutta persona, una persona non degna di valore o una persona che non sa raggiungere i suoi scopi, il valore della mia persona non dipende totalmente ed in modo assoluto dall’esito di una mia singola azione o di un singolo frangente della mia esistenza. Allo stesso modo, allo scopo di evitare di creare una dipendenza dalle altre perone, per atto di difesa o di ribellione, o per dimostrare di essere forti e di potercela fare completamente da soli, non ha senso rifiutare l’aiuto che ci viene offerto dagli altri, in alcune circostanze risulta indubbiamente più utile riconoscere di aver bisogno del loro aiuto, cercarlo ed accettarlo. Farsi aiutare in determinate circostanze non significa dipendere dagli altri, significa aver usato la propria testa per ragionare, per analizzare il problema, per riconoscere di non possedere individualmente tutte le cose necessarie e più adeguate per affrontarlo, ed avere scelto autonomamente di accettare o chiedere l’aiuto di qualcuno che può fare in modo che la probabilità di raggiungere il nostro obiettivo possa aumentare. Se lo intendiamo così, l’aiuto degli altri, non ci rende dipendenti da loro, ma ci rende persone che cooperano, collaborano al raggiungimento di uno scopo apportando contributi e capacità diverse implementate per lo stesso fine.
BIBLIOGRAFIA
Ellis, A.(1962). “Reason and emotion in psychotherapy. Lyle Stuart, New York. Tr.it. “Ragione ed emozione in psicoterapia”. Astrolabio, Roma 1989.