Superata la fase della diagnosi di malattia di Alzheimer, o di un’altra demenza, così come accade per tutte le malattie, inizia un percorso costellato di dubbi e problemi. Chi è più vicino alla persona malata (la moglie o il marito, una figlia, un nipote, un qualsiasi parente o l’intera famiglia), indipendentemente dalla reazione che può sviluppare, in modo quasi naturale ed automatico, comincia ad interessarsi della patologia. Vuole conoscere i sintomi, si informa sulle cause, inizia a cercare materiale e a leggere libri e riviste, diventa particolarmente attento ad alcuni tipi di programmi televisivi, comincia a chiedere in giro, si affida a mani esperte..si lascia travolgere dai dubbi: “cosa significa?”, “cosa comporta?”, “come diventerà?”,“succederà anche a me?” Così inizia a raccogliere informazioni e gli verrà detto che la malattia di Alzheimer, così come le altre demenze correlate, vanno a colpire le funzioni della mente, tutte quelle funzioni importantissime, dette cognitive, che permettono a ciascuno di noi di costruire una nostra identità e di interagire con il mondo esterno e con gli altri.
E poi, successivamente, una volta comprese e meglio definite le caratteristiche della patologia, le domande, i dubbi e le insicurezze non finiscono. Il familiare chiede e si domanda anche “che farmaci può prendere?”, “lo aiuteranno?”, “starà meglio?”,” che cosa si può fare?”. E qui la questione si fa interessante … perché, quando gli hanno spiegato che la malattia è degenerativa, che non può che peggiorare con il tempo, gli avranno quasi sicuramente detto che non si può curare. Un pregiudizio piuttosto diffuso consiste nel ritenere che, se una malattia non è guaribile, come l’Aids o un tumore o una demenza degenerativa, allora la malattia è incurabile. Curare non è l’esatto sinonimo di guarire. Curare una persona con una malattia progressivamente ingravescente vuol dire allungargli la vita e migliorarne la qualità, rallentare il peggioramento, mantenere l’autonomia personale della persona il più a lungo possibile, per poter, di conseguenza, alleviare il carico gestionale di chi si prende cura di lui, il cosiddetto caregiver. E per fare tutto questo non basta una prescrizione medica e una scatoletta di pillole. Oltre ai farmaci, diventa necessario un trattamento non farmacologico, le cui diverse tecniche e metodologie possono essere riassunte in quella che viene chiamata stimolazione cognitiva.
La stimolazione cognitiva è un intervento psicologico fondamentalmente caratterizzato da un set di esercizi standard specificatamente rivolti alla memoria, all’attenzione, all’orientamento e a tutte le altre funzioni cognitive. I training cognitivi possono, inoltre, prevedere sia sessioni individuali sia sessioni di gruppo. Nell’approccio di gruppo è necessario che i diversi componenti abbiano un grado di deterioramento omogeneo, per poter presumere che ciascuno agisca in maniera simile alle tecniche di intervento. Ogni intervento di stimolazione, dunque gli esercizi, le attività e le modalità che esso utilizza, viene calibrato secondo il tipo di demenza e secondo il livello di gravità della patologia delle persone a cui è rivolto. Gli esercizi vengono proposti a partire dalle preferenze, attitudini dell’individuo, sono pensati in seguito ad una buona valutazione delle abilità compromesse, per poter valorizzare le capacità ancora preservate e, inoltre, vengono modificati a seconda dello stato emozionale del momento. Un buon intervento di stimolazione, che si propone di essere efficace, senza dubbio utilizza esercizi che hanno un valore ecologico, cioè che stimolano le capacità utili al paziente nel proprio contesto di vita. L’obiettivo di una buona stimolazione è di rendere il beneficio degli esercizi generalizzabile alla vita di tutti i giorni. In quest’ottica, spesso vengono utilizzati oggetti di uso comune, non soltanto schede ed esercizi carta e matita che vanno ad elicitare le diverse funzioni mentali; vengono create condizioni molto familiari e proposte attività che rispecchiano situazioni di vita quotidiana, come leggere un giornale, fare una telefonata, cucinare un dolce o preparare un caffè, fare la spesa e maneggiare il denaro …
Oltre agli esercizi ecologici, un altro aspetto che indubbiamente aumenta la probabilità di efficacia della stimolazione cognitiva è il fatto che sia intensiva e continua. Questo richiede chiaramente il coinvolgimento di più figure, oltre al neuropsicologo o all’educatore che si occupa della riabilitazione in un setting formale. Diventa, pertanto, necessario il contributo di operatori sanitari e infermieri (nel caso di pazienti istituzionalizzati) e maggiormente dei familiari. Il familiare può stimolare il genitore, il nonno, il marito o la moglie ammalata anche tra le mura di casa, in ogni momento della sua giornata, in diverso modo e con svariati strumenti. Dunque potrebbero rivelarsi utili le parole di un marito che chiede a sua moglie, malata di Alzheimer, la data del giorno, magari fingendo di averla lui per primo dimenticata; sarebbe tenera l’immagine di un nipotino che chiede al nonno ammalato di stare accanto a lui e di aiutarlo nei compiti di matematica; potrebbe servire, nella frenesia della vita quotidiana, trovare due minuti per leggere alla propria suocera, che ha la demenza, una pagina del giornale per cercare di capire la notizia del giorno; sarebbe vantaggioso, oltre che carino, vedere la vecchia signora con Alzheimer che prepara la lista della spesa con suo figlio, che scrive sul calendario la data della prossima visita dal medico o che punta la sveglietta per ricordarsi, quando suona, di prendere la sua pillola; sarebbe bello vedere la stessa signora che accompagna sua figlia in camera da letto, mentre sta rifacendo il letto dei bimbi che sono già a scuola, anche se si limiterà a mettere i cuscini al loro posto; potrebbe essere utile, oltre che emozionante, richiedere alla propria mamma ammalata di aiutarci nella preparazione della torta per il pranzo della domenica, quando a tavola siederanno tutti i figli e i nipoti e potrebbe essere altrettanto commovente vedere il sorriso spuntarle sul viso, quando, a lavoro finito, le verrà detto quanto è stata brava, nonostante lei abbia in realtà solo setacciato la farina e passato il burro …
Se a questi quadretti aggiungessimo la giusta dose di pazienza, comprensione, accettazione della malattia, un po’ di fantasia e versatilità e la capacità di leggere la realtà alla luce delle difficoltà della persona affetta da demenza, la stimolazione, oltre che un allenamento delle funzioni cognitive, costituirebbe, in maniera secondaria ed indiretta, un intervento anche nella sfera emotiva e comportamentale della persona affetta da demenza.
Per approcciarsi ad un mondo così complesso, quale quello di un malato di Alzheimer, è utile un approccio cosiddetto multimodale. E’ necessario che la persona venga costantemente stimolata, in varie funzioni cognitive, con diversi strumenti e differenti tecniche, da diverse figure, professionali e non, e in diversi momenti e occasioni della giornata. La stimolazione cognitiva e la sua utilità ci ricordano che, malgrado l’inesorabile declino della patologia, c’è sempre lo spazio per fare qualcosa, quello spazio che permette al proprio caro di vivere nel migliore dei modi e con dignità, perché inevitabilmente il fisico sfiorisce, certamente il cervello si atrofizza, ma, meravigliosamente “il cuore non ha rughe”. E non si ammala.