“Piangere mi aiuta a calmarmi e a non essere ossessionata dal peso dei problemi della vita.”
– Tristezza – dal film Inside Out .
Viola guarda i fiori dell’albero di pesco nel giardino, ma si sente lontana dall’apprezzarne la bellezza.
Continuamente si fa strada in lei il pensiero del maledettissimo concorso. Ripensa al teatro, magnifico e imponente, e a lei su quel palco, così vicina alla meta tanto ambita: recitare in quel musical. Ha studiato un intero anno per quel posto. Un intero lunghissimo anno. Ed è stata brava, bravissima nel suo monologo.
Ma non è bastato.
Qualcuno evidentemente più espressivo di lei ha vinto al posto suo.
Ora si sente semplicemente spossata, ha voglia di piangere e di chiudersi in una stanza lasciando il mondo fuori, lontano. In quel momento sente che le manca l’energia per fare qualsiasi cosa.
Viola è triste, ma si odia per questo. Dovrebbe reagire, dovrebbe fare come tante persone che conosce, rimboccarsi le maniche, alzarsi e immediatamente ricominciare.
Ma chi dice che dovrebbe?
Molto spesso, quando le persone provano tristezza, si sentono come Viola; come se la tristezza fosse un’emozione da cancellare, da evitare. Ci si sente tristi e, contemporaneamente, in colpa o sbagliati per il solo fatto di esserlo. La credenza che dolore e tristezza siano condizioni emotive da evitare assolutamente è un’idea disfunzionale diffusa nella società moderna, soprattutto in quella occidentale.
Ma che cos’è la tristezza e come si manifesta?
E’ una delle sei emozioni primarie, ossia è uno di quegli stati affettivi che nella sua modalità espressiva accomuna tutti i mammiferi, così come lo sono la rabbia, la paura, la gioia, la sorpresa, il disprezzo e il disgusto (Ekman, 1992).
La valutazione cognitiva sottostante riguarda l’identificazione di una perdita (Caselli e Rebecchi, 2010). Nell’esempio sopra riportato, possiamo identificarla nella perdita di un’ambizione personale: Viola sente che non potrà più diventare la protagonista di quel musical, sa che non è più possibile raggiungere quello scopo. In linea generale, la perdita connessa alla tristezza si identifica nella privazione di uno o più obiettivi in una o più sfere di vita; l’obiettivo in questione può essere quindi di varia natura e importanza, e può ad esempio identificarsi in una persona (pensiamo ad esempio al lutto, o alla fine di una relazione amorosa) o in uno stato psicofisico (immaginiamo la perdita della propria salute), o in un’ambizione.
I segnali che aiutano a riconoscere questa emozione sono la voglia di piangere, la perdita di energie, il desiderio di rimanere soli e di ridurre le proprie relazioni sociali, il senso di vuoto. A livello facciale si possono riconoscere le sopracciglia oblique, la fronte corrugata, l’abbassamento delle commessure labiali.
Quale funzione evolutiva ha la tristezza?
Essere tristi lo si sa, non è piacevole. Ma come ogni emozione, anche la tristezza ha una sua funzionalità nel regolare l’esperienza e il comportamento umano. Si possono individuare due aree adattative della tristezza: intrapersonale ed interpersonale (Bonanno, Goorin, Coifman, 2008).
Per quanto riguarda la prima, una funzione fondamentale è quella di permettere alla persona di promuovere una riflessione personale, di rielaborare e riorganizzare la propria esistenza prendendo consapevolezza della perdita avvenuta. Il corpo è poco attivato dal punto di vista fisiologico, l’energia manca, la motivazione “a fare” è esigua; le modifiche fisiologiche aiutano la persona a prendersi un momento per sé, a operare delle riflessioni attente su ciò che sta accadendo, a inserire l’evento all’interno del proprio piano esistenziale.
In parallelo, l’espressione della tristezza attiva nel gruppo di appartenenza comportamenti di sostegno e supporto, proprio nel momento in cui la persona è maggiormente vulnerabile.
Per queste ragioni, essere tristi fa parte della natura umana, ed è fondamentale per l’uomo, così come lo sono l’essere arrabbiati o l’avere paura. Nonostante questo, le culture occidentali che promuovono l’individualità e l’attività come valori di base, tendono ha favorire credenze quali “l’essere triste è segno di debolezza”, o ancora “manifestare la tristezza è segno di una mancanza di padronanza di sé”. La persona apprende a sopprimere la tristezza e a evitare di manifestarla, inficiando proprio le due funzioni nucleari dell’emozione: riorganizzare i propri scopi (non possibile se l’individuo si impedisce di vivere la tristezza) e ricevere supporto sociale (impossibile se l’emozione non viene manifestata).
Ma qual è il confine tra tristezza e depressione?
Riassumendo quello che abbiamo detto sopra, la tristezza è quindi una normale oscillazione del tono dell’umore, che segnala all’individuo una perdita e lo aiuta a rielaborarla.
La depressione, invece, è un disturbo psicopatologico che si delinea con una serie di sintomi (emotivi, cognitivi e comportamentali) specifici che possono durare per settimane e inficiano la vita affettiva e lavorativa della persona. Oltre infatti alla tristezza, la persona con depressione può vivere una marcata diminuzione di piacere e interesse per quasi o tutte le attività della vita, essere insonne o iperinsonne, perdere peso o aumentare molto di peso, provare sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi, avere una ridotta capacità di concentrazione, avvertire difficoltà di memoria, essere agitato o rallentato dal punto di vista psicomotorio, avere pensieri ricorrenti di morte o ideazione suicidaria. Secondo il DSM V (ossia il Manuale statistico diagnostico dell’American Psychiatric Association) per parlare di depressione è necessario si riconoscano cinque o più sintomi, di cui almeno uno costituito dall’umore depresso o dalla perdita di piacere per quello che si fa. Tali sintomi inoltre devono essere presenti per la maggior parte del giorno e devono durare almeno due settimane.
La depressione è quindi una malattia che necessita di una sua diagnosi; per la sua cura si sono rilevati efficaci diverse modalità terapeutiche, farmacologiche e psicoterapeutiche. Le linee guida del Ministero della Salute (2011) identificano nella psicoterapia cognitivo-comportamentale un trattamento efficace per la sua cura.
BIBLIOGRAFIA:
-Bonanno, G.A., Goorin, L., Coifman, K.G. (2008). Sadness and Grief. In Lewis, M. Haviland-Jones, J.M., Barret, L.F. Handbook of emotions. New York: Guilford Press; 797-810.
– Caselli, G., Rebecchi, D. (2010). La tristezza. In Apparigliato, M., Lissandron S., La cura delle emozioni in terapia cognitiva. Roma: Alpes Italia.
– della Salute, BIF Ministero Italiano. (2001). La depressione e gli antidepressivi. 56-61.
-Ekman, P. (1992). An argument for basic emotions. Cognition and Emotion; 6: 169-200.
-Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali DSM-5. (2014). Raffaello Cortina Editore.
– https://www.psychiatry.org/